Covid19: un nemico da combattere con determinazione
Occorre combattere e sconfiggere il Covid19 al proprio domicilio
I mezzi da usare vanno dal Saturimetro e l’aspirina (o meglio antinfiammatori tipo COX-2 inibitori), nell’attesa del medico di base e soprattutto chiedere la visita dell’USCA.
Già da diversi mesi, è evidente che nell’evoluzione dell’infezione (causata dal virus Covid19), sono fondamentali le decisioni dei primi giorni. Ma seppur con un anno di esperienze, le soluzioni trovate dagli esperti addetti non sono ancora univoche, anzi a volte contrastanti. Le istituzioni non sono quindi ancora riuscite a mettere a punto, né le regole ne la “macchina organizzativa” necessaria, per combattere e sconfiggere il virus.
Sono le strategie curative insieme alla tempestività, le armi che consentirebbero d’affrontare, il microscopico nemico, prima che sia ben penetrato e diffuso, nel soggetto positivo, trasformandolo così in debole malato .
L’unica strada che, le istituzioni e il governo perseguono con determinazione (senza peraltro nemmeno riuscire nell’intento), è quella dei vaccini.
Pur essendo tanti (anzi troppi) i tipi di vaccini prenotati dall’UE, le quantità arrivate e in arrivo nei prossimi due mesi, sono insufficienti alla necessita di concludere le vaccinazioni, in tempo utile. Si tratta di vaccini autorizzati in fretta (in deroga alla normale prassi), che sono ancora in una delle fase di sperimentazione.
Non hanno invece seguito la stessa procedura per i farmaci. Alcuni già esistenti (utilizzati per altre malattie) altri progettati ad hoc, ma ancora in fase di sperimentazione. Farmaci che stentano sia ad essere finanziati (consentendo una rapida sperimentazione) e/o approvati almeno in fase provvisoria. C i sembra tra l’altro assurdo, che la gestione della terapia domiciliare sia ancora gestita facendo riferimento ad una “vecchia discutibile” circolare (che è sulla falsa riga della nota dell’Aifa, ritenuta illegittima dal Tar del Lazio vedi sentenza) del 30 novembre 2020.
Sono I primi giorni quelli decisivi nei quali vedere che strada prende il Covid-19.
L’infezione infatti può risolversi come una forte sindrome influenzale (ci possono essere tosse, febbre, dolori muscolari, stanchezza, a volte nausea con incapacità a percepire sapori e odori). Ma è l’evoluzione che può improvvisamente aggravare la sintomatologia, con affanno respiratorio. E’ soprattutto in questi casi, che si rende necessaria una visita urgente per una personalizzata terapia.
Finalmente i medici dopo le numerose esperienze, hanno imparato a riconoscere i pazienti a rischio. “Già alla prima visita – ha dichiarato Antonella D’Arminio Monforte, direttore delle Malattie infettive nella Asst Santi Paolo e Carlo di Milano – siamo in grado di prevedere il decorso. Sono di aiuto per stabilire le cure, gli esami del sangue, la Tac del torace e le caratteristiche del paziente (obesità, ipertensione, grandi anziani con più patologie).
Utilizziamo ad esempio gli antivirali, il remdesivir*: prima si abbassa la carica virale, minore sarà l’entità della reazione”.
Il ministero fornisce indicazioni operative per la corretta gestione a domicilio del caso fin dalla diagnosi, con il duplice scopo di mettere in sicurezza il paziente e di non affollare in maniera non giustificata gli ospedali e soprattutto le strutture di pronto soccorso.
I Medici di Medicina Generale (MMG) e i Pediatri di Libera Scelta (PLS) giocano, in stretta collaborazione con il personale delle USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) e con eventuali unità di assistenza presenti sul territorio, un ruolo cruciale nell’ambito della gestione assistenziale dei malati COVID-19.
L’OMS ha elaborato i criteri che definiscono (negli adulti e negli adolescenti) quattro livelli di gravità della Covid-19:
- malattia lieve, in cui non c’è polmonite o ipossia, la febbre dura poco o manca e sono prevalenti il mal di testa e di gola, la congestione nasale, la tosse e la perdita dell’olfatto. A volte vi sono diarrea, nausea o vomito, spossatezza, mancanza di appetito, modificazioni cutanee specie alle estremità, perdita del gusto e/o dell’olfatto
- malattia moderata, in cui vi è la polmonite, sospettata clinicamente e/o confermata dall’imaging, ma senza desaturazione di ossigeno (SpO2 ≥90%, in aria ambiente, a livello del mare); nei bambini, la polmonite è segnalata dalla tachipnea (≥40-60 atti respiratori al minuto)
- malattia grave, in cui la polmonite è associata a SpO2 <90%; nei bambini, vi sono colorito bluastro del volto, letargia, convulsioni, difficoltà ad alimentarsi
- malattia critica, in cui al distress respiratorio acuto si aggiungono sepsi o shock settico, embolia polmonare, sindrome coronarica acuta, ictus, delirium
Accanto a queste linee guida di ministero e Aifa, ci sono anche altre raccomandazioni redatte da ricercatori di Istituti di ricerca farmacologica, membri della comunità scientifica e reti di medici.
Il nodo centrale è il trattamento precoce: “Si deve iniziare il trattamento farmacologico subito, nelle prime ore, alla comparsa dei sintomi (perdita del gusto e dell’olfatto e febbre) senza perdere i giorni più importanti – dice Norberto Perico, capo dipartimento di ricerca-bioingegneria dell’Istituto Mario Negri – non si deve aspettare che il virus si replichi.
Si deve bloccare l’infiammazione con farmaci antinfiammatori come Nimesulide e il Celecoxib (inteso come categoria di farmaci inibitori della Ciclossigenasi I e II)”.
Questo nel caso in cui i sintomi siano lievi, ma “se c’è febbre si può somministrare aspirina che ha un effetto antinfiammatorio e anti-trombotico;
uno dei problemi del Covid-19 è proprio legato ai micro-trombi polmonari – chiarisce Norberto Perico – non suggerisco la tachipirina (paracetamolo), perché ha un potere antinfiammatorio molto modesto e stando alla letteratura ridurrebbe i livelli di glutatione (il quale protegge le cellule da danno indotto da processo infiammatorio) abbiamo notato che i pazienti Covid hanno già bassi livelli di glutatione, questo trattamento quindi potrebbe essere peggiorativo”.
È necessario chiarire che “il nostro non è un protocollo, né tanto meno una linea guida, è il risultato delle risposte alle domande che centinaia di medici di medicina generale ci hanno rivolto, sono raccomandazioni – puntualizza il ricercatore del Mario Negri – proprio in tal senso pubblicheremo a breve uno studio retrospettivo osservazionale su un gruppo di pazienti trattato seguendo le nostre raccomandazioni e un gruppo trattato con approccio standard”.
I campanelli d’allarme (red flags) che devono indurre a ricoverare subito il paziente sono:
- la febbre alta che non cessa,
- la difficoltà a respirare (o un valore basso al pulsiossimetro),
- un dolore o senso di peso al petto,
- una colorazione blu delle labbra,
- il racconto di sudore freddo e pelle di colorito screziato,
- la confusione mentale,
- la difficoltà ad alzarsi,
- l’oliguria,
- il sangue nell’escreato.
Utile per capire è leggere nel portale “www.salute.gov.it/portale” la: – Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 –
Nella premessa ci aiuta a capire il tipo di infezione, nella sua forma, sintomi e farmaci utili.
Va anche opportunamente sottolineato che, ancora oggi, esistono larghi margini d’incertezza rispetto all’efficacia di alcuni degli approcci terapeutici sopramenzionati; l’uso delle differenti terapie piuttosto che l’assenza d’impiego delle stesse dipendono dalla severità delle manifestazioni cliniche presentate dai malati.
Non casualmente, vi è forte raccomandazione che soprattutto i malati che presentano la sintomatologia più grave (pazienti ospedalizzati) vengano inclusi in clinical trials la cui conduzione è mirata a definire in maniera conclusiva il ruolo delle diverse opzioni di trattamento.
La correlazione tra infiammazione e coagulazione è stata ampiamente dimostrata:
l’interazione tra endotelio, piastrine e leucociti (con il relativo rilascio di citochine) è un elemento cruciale della risposta infiammatoria;
nei soggetti con prognosi peggiore si trova in circolo un livello elevato di D-dimero, un prodotto della degradazione della fibrina e sono ormai molti i riscontri autoptici di micro e macrotrombi polmonari e in altri organi.
Da tutte queste considerazioni discende il razionale d’uso dell’eparina e dell’analogo sintetico fondaparinux, che inibiscono il fattore decimo attivato.
Formulate queste doverose premesse, il decorso clinico dell’infezione può essere riassumibile in tre fasi:
• una fase iniziale durante la quale SARS-CoV-2, dopo essersi legato ad ACE2 ed essere penetrato all’interno delle cellule dell’ospite, inizia la replicazione. Questa fase di solito si caratterizza clinicamente per la presenza di malessere generale, febbre e tosse secca. I casi in cui il sistema immunitario dell’ospite riesce a bloccare l’infezione in questo stadio (la maggior parte) hanno un decorso assolutamente benigno;
• la malattia può poi evolvere verso una seconda fase, caratterizzata da alterazioni morfofunzionali a livello polmonare causate sia dagli effetti citopatici del virus sia dalla risposta immunitaria dell’ospite. Tale fase si caratterizza per un quadro di polmonite interstiziale, molto spesso bilaterale, associata ad una sintomatologia respiratoria che nella fase precoce è generalmente limitata; ma che può, successivamente, sfociare verso una progressiva instabilità clinica con insufficienza respiratoria. Il fenomeno della cosiddetta “ipossiemia silente”, caratterizzato da bassi valori di ossigenazione ematica in assenza di sensazione di dispnea soggettiva, è caratteristico di questa fase di malattia;
• questo scenario, in un numero limitato di persone, può evolvere verso un quadro clinico ingravescente dominato dalla tempesta citochinica e dal conseguente stato iperinfiammatorio; il quale determina conseguenze locali e sistemiche e rappresenta un fattore prognostico negativo producendo, a livello polmonare, quadri di vasculopatia arteriosa e venosa con trombizzazione dei piccoli vasi ed evoluzione verso lesioni polmonari gravi e, talvolta, permanenti (fibrosi polmonare).
Note:
- http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=91443
Per approfondire leggere la Circolare del 30 novembre 2020 le Linee guida ministero e le Linee guida Aifa
Movimento CittadiniNelCuore
A chi vuole approfondire il tema, suggeriamo di leggere gli Allegati:
La situazione in numeri con i confronti di alcuni paesi/stati
Al 19.12.2020, l’Italia era terza al mondo per tasso di letalità, rispetto ai contagiati da Covid-19 (3,5%), dietro Iran (4,7%) e Messico (9%) (Il dato è stato pubblicato ieri dalla Johns Hopkins University sul proprio sito). Siamo solo un gradino più su del Regno Unito che si ferma al 3,4%, seguito da Indonesia (3%) e Spagna (2,7%).
SE PERÒ SI CALCOLA il numero di morti da Covid-19 rispetto agli abitanti dei maggiori paesi, allora scaliamo le posizioni è finiamo tra i primi al mondo ( United Kingdom –UK- se la batte con noi).
Nel nostro paese, infatti, risultano 112,35 decessi ogni 100mila abitanti. Seguono la Spagna (104,71), il Regno Unito (100,23), gli Stati Uniti (95,85). Secondo i dati raccolti dall’ateneo Usa, nel mondo i decessi per coronavirus ieri pomeriggio erano pari a 1.677.957 su 75.819.239 casi confermati (ma il numero è in continuo aggiornamento). In termini assoluti, al primo posto per decessi ci sono gli Stati uniti con 313.764, seguiti dal Brasile con 185.650, dall’India con 145.136 e dal Messico con 117.249 morti. Negli Usa ieri sono stati registrati 249.709 nuovi casi di coronavirus, mai così tanti nel paese in un solo giorno.
Situazione aggiornata al 26 febbraio 2021 Dati: www.rainews.it
L’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è 81 anni (mediana 83, range 0-109, Range InterQuartile – IQR 75-88). Le donne decedute sono 42.191 (43,9%). L’età mediana dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 83 anni – pazienti con infezione 48 anni).
La figura mostra il numero dei decessi per fascia di età.
Le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 86 anni – uomini 80 anni).
La figura mostra l’andamento dell’età media dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 per settimana di calendario, a partire dalla 3° settimana di febbraio 2020 (la data del primo decesso risale al 21 febbraio 2020). L’età media dei decessi settimanali è andata sostanzialmente aumentando fino agli 85 anni (1° settimana di luglio) per poi calare leggermente; un’ulteriore riduzione dell’età media dei decessi è stata rilevata a partire dalla 2° settimana di febbraio 2021.
L’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è 81 anni (mediana 83, range 0-109, Range InterQuartile – IQR 75-88).
<<Da notare che l’età media dei morti, resta quasi stabile nel tempo, lasciando immaginare che la principale causa di morte, sia proprio legata all’Età>>
Le donne decedute sono 42.191 (43,9%). L’età mediana dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 83 anni – pazienti con infezione 48 anni).
Le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 86 anni – uomini 80 anni).
Secondo la SIMGG (Società italiana medici di medicina generale) i criteri per stabilire che un paziente può rimanere al proprio domicilio sono:
- febbre non elevata con tosse,
- vago malessere generale,
- rinorrea,
- mal di gola, ma in assenza di confusione o letargia,
- ipotensione arteriosa,
- vomito o diarrea incoercibili.
Ma è soprattutto, in assenza di dispnea, importante il monitoraggio della saturazione periferica di ossigeno di base, accettabile fino al 95% e, dopo sforzo (test del cammino per 6 minuti) fino al 93%.
Chi soffre di bronchite cronica può avere valori più bassi, ma non di molto, per non rischiare l’ipossia critica.
Nella decisione di tenere il paziente a casa vanno valutati il buon compenso di eventuali patologie sottostanti e l’età: sopra gli 80 anni il ricovero è fortemente raccomandato, mentre, per le età inferiori il giudizio, più che anagrafico, deve essere clinico.
La permanenza al domicilio non può prescindere dalla garanzia di una linea di comunicazione diretta con il medico o con un operatore sanitario (infermiere di studio) fino a completa risoluzione del quadro clinico. Le stesse considerazioni valgono per il ritorno a casa dall’ospedale a quadro Covid migliorato o stabilizzato.
I farmaci a disposizione per le cure domiciliari sono quelli che controllano i sintomi come:
- la febbre e i dolori diffusi: paracetamolo (max 4 g/dì) e ibuprofene alla dose minima efficace per il minor tempo possibile.
- Meglio evitare i gastroprotettori cosiddetti inibitori di pompa (PPI) che sembrano facilitare l’infezione con SARS-CoV-2 e peggiorare il decorso della malattia.
- Per proteggere lo stomaco si può usare gli H2 antagonisti, come ranitidina, nizatidina e famotidina, o il misoprostolo, protettore gastrico analogo sintetico della prostaglandina E1, sucralfato, consiste in un agente citoprotettivo ecc.)
- la tosse: un cucchiaino di miele (dopo l’anno d‘età) seda la tosse meglio dei farmaci, come hanno dimostrato a Oxford. Il paziente non deve stare sdraiato a lungo supino, sia per non comprimere i polmoni (meglio dormire a pancia sotto) sia per evitare la stasi venosa agli arti inferiori
- il malessere generale: si combatte con un’alimentazione proteica e vitaminica (frutta e verdura) e con un’idratazione adeguata, ma non eccessiva, perché troppi liquidi peggiorano l’ossigenazione.
Vanno areati spesso i locali dove soggiorna.
Sono fortemente sconsigliati:
- l’aerosolterapia, perché aumenta il rischio di diffusione aerea del virus per nebulizzazione
- i cortisonici per via orale (a meno che consigliati in dimissione ospedaliera)
- gli antibiotici, se non richiesti da altre condizioni o per proseguire una terapia in corso
La prescrizione empirica di antibiotici contro un’evenienza di sovrainfezioni batteriche può essere considerata nei pazienti >65 anni e in quelli <5. Le terapie per le eventuali patologie croniche sottostanti devono essere proseguite.
Per quanto riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa, alcuni esperti hanno ipotizzato che gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II, i cosiddetti sartani, possano portare a un iper-espressione di ACE2, il cavallo di Troia del virus, e quindi facilitarne l’ingresso.
Poiché i risultati dei vari studi in merito sono contraddittori, dimostrando ora l’ininfluenza sul rischio d’infezione, ora l’aumento del rischio nei più anziani, ora addirittura una diminuzione del rischio infettivo; il NICE (National Institute for Health and Care Excellence), poi seguito da EMA e AIFA, ha finito per raccomandare di non sospendere le terapie con sartani in atto, privilegiando di controllare bene l’ipertensione, che sicuramente espone i pazienti a una forma più grave di Covid-19.
Vale la pena di considerare con maggiore dettaglio tre classi di farmaci che potrebbero essere usati nell’assistenza domiciliare dei casi lievi o moderati oppure in dimissione ospedaliera: sono i cortisonici, gli anticoagulanti e gli antibiotici.
Considerazioni sugli antibiotici
La pandemia si è innestata in un contesto di ingravescente antibiotico resistenza e i paesi con maggior incidenza di infezione sono gli stessi in cui sono più frequenti le infezioni ospedaliere che non rispondono agli antibiotici.
Ciononostante, poiché nel 2009 le infezioni batteriche sovrapposte all’influenza erano state causa di un eccesso di mortalità, nei primi mesi dell’attuale epidemia l’OMS aveva suggerito l’impiego empirico degli antibiotici in caso di polmonite da Covid-19; inoltre dato il superlavoro dei laboratori ospedalieri che impediva la ricerca dei batteri eventualmente implicati, i medici si sono orientati sugli antibiotici a più ampio spettro.
Di recente, però, è stato notato che nelle polmoniti da SARS-Cov-2 le sovra-infezioni non sono frequenti:
questa osservazione ha indirizzato molti centri ospedalieri verso l’astensione dalla prescrizione antibiotica; ciò anche in fase di dimissione dei pazienti dai pronto soccorso: da un sondaggio on line internazionale appena pubblicato sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy, emerge che il 29% dei pazienti ricoverati non riceve nessun trattamento antibiotico.
È stata anche ipotizzata una loro diretta attività antivirale, sulla base di prove in vitro, nessuna delle quali, però, con coronavirus.
Nelle cure domiciliari, soprattutto all’inizio dell’epidemia, i medici hanno dato la preferenza ad azitromicina, che ha uno schema terapeutico che facilità la compliance e che, come e più degli altri macrolidi, ha prove di letteratura di avere effetti, oltre che antibatterici, antinfiammatori e immunomodulanti, attenuando la produzione di citochine proinfiammatorie e promuovendo la produzione di immunoglobuline.
Il profilo di sicurezza di azitromicina (come degli altri macrolidi e dei chinolonici) è stato, però, oggetto di un recente warning di AIFA per la sua interferenza sulla conduzione cardiaca: può causare, infatti, un prolungamento della ripolarizzazione cardiaca (intervallo QT), che può essere contrastato assumendo, insieme all’antibiotico, preparati a base di magnesio e potassio.
Considerazioni sui cortisonici
Poiché il decorso dell’infezione ha una fase di replicazione virale, seguita dalla fase di risposta infiammatoria del sistema immunitario, è probabile che il beneficio dei corticosteroidi dipenda dalla tempistica del loro impiego e dallo stadio della malattia, oltre che dalla dose somministrata e da eventuali caratteristiche individuali dei pazienti.
L’OMS raccomanda con forza la terapia corticosteroidea sistemica con desametasone e idrocortisone a basse dosi negli adulti con malattia grave o critica.
L’EMA (European Medicines Agency) in Europa e i NIH (National Institutes of Health) negli Stati Uniti raccomandano l’uso dei corticosteroidi solo ai pazienti in ossigenoterapia. Le dosi consigliate dei vari cortisonici (una volta al giorno per un massimo di 10 giorni) sono 6 mg per desametasone, 32 mg per metilprednisolone, 40 mg per prednisone e 160 mg per idrocortisone: dosaggi più alti prescritti in Cina in epidemie influenzali precedenti erano associati a superinfezioni e aumento della mortalità.
Nello studio randomizzato controllato RECOVERY (Randomised Evaluation of COVid-19 thERapY) è stato escluso un beneficio dei cortisonici nei pazienti che cominciano la terapia prima di aver bisogno di un supplemento di ossigeno e nei pazienti ultrasettantenni.
Sulla stessa posizione sono i risultati di uno studio retrospettivo cinese di settembre su quasi 500 pazienti ricoverati con polmonite non grave, senza insufficienza respiratoria: la somministrazione precoce di corticosteroidi si associava a una maggior durata della febbre, della viremia e del ricovero e a un maggior rischio di peggioramento e di necessità di antibiotici.
Si ricorda che il ministero ha sconsigliato l’uso del cortisone sul territorio con la sola eccezione dei soggetti in ossigeno terapia domiciliare.
CHI PRESCRIVE EPARINA, CORTISONE E OSSIGENO?
Antinfiammatori sofisticati, antiaggreganti e antiacoagulanti vengono prescritti solitamente a livello specialistico. I cortisonici, se prescritti a casa e prematuramente, possono paradossalmente influenzare la replicazione virale. Con tutte le conseguenze del caso.
Considerazioni sugli anticoagulanti
I ricorrenti focolai di gravi infezioni virali umane (influenza A, MERS, SARS) hanno convinto gli studiosi che la strategia terapeutica diretta contro le proteine virali presenta molti svantaggi, non ultimo dei quali è il rapido sviluppo di varianti virali resistenti (specie nei virus a RNA) e dovrebbe essere sostituita da una strategia diretta a regolare la risposta trombo-infiammatoria dell’ospite.
Uno studio italiano delle università di Catania e Verona ha ripreso la valenza antinfiammatoria ed endotelio-protettiva della terapia eparinica, nonché il suo potenziale effetto antivirale; vanno aggiunti al consueto ruolo antitrombotico nel paziente allettato dalla polmonite, specie se anziano e perciò predisposto alla disfunzione endoteliale e a una carente risposta immunitaria.
Lo studio del San Raffaele punta anche l’attenzione sulla condizione dei pazienti che al momento del contagio con SARS-CoV-2 erano già in trattamento anticoagulante orale o in trattamento antiaggregante piastrinico.
In questo secondo caso, è la conta piastrinica a guidare il comportamento: l’antiaggregante deve essere dismesso quando i trombociti scendono <25.000/mm3.
Per quanto riguarda l’anticoagulazione orale (pazienti con trombosi venosa profonda, fibrillazione atriale, sostituzione valvolare), in caso di Covid-19 lieve: essa può essere proseguita, a meno d’instabilità dell’INR o di difficoltà a misurarlo per quarantena o di difficile accesso ai laboratori; in tal caso, meglio passare ai nuovi coagulanti orali o alle eparine a basso peso molecolare.
Se la Covid-19 è moderata o grave, il passaggio all’eparina è imperativo.